Tutti conosciamo Ben Lerner per la sua opera in prosa (definirla “narrativa” sarebbe riduttivo), primo fra tutti il romanzo Nel mondo a venire, edito da Sellerio nel 2014. Lo stesso editore ha pubblicato lo scorso anno il pamphlet Odiare la poesia, in cui l’autore statunitense raccontava in realtà di amare la Poesia, e di amarla talmente tanto che qualsiasi poesia, nella sua singola e accidentale piccolezza, non ne sarebbe mai stata all’altezza.

Tlon Edizioni propone adesso – e non possiamo che gioirne – l’atteso esordio di Lerner, Le figure di Lichtenberg, nell’ottima traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan: una raccolta poetica pubblicata all’età di venticinque anni e già largamente anticipatrice della riflessione meta-letteraria che l’autore avrebbe portato avanti nei libri successivi.

La poesia di Lerner, così come avrebbe dichiarato nel suo pamphlet, annuncia sin dai primi versi la propria impossibilità, la sua vocazione al fallimento, imprigionata com’è nella gabbia della forma: «Avrei voluto gettare a mare tutto il dogmatismo della teoria e tutta la sclerosi dell’organizzazione / Avrei voluto mettere la mano in posizione atta a prendere il sole».

La sua tensione verso il superamento della teoria attraversa tutta la raccolta, e non è diversa dalla ragazzina cattolica che va a letto «con qualsiasi ragazzo che parla di andarsene dal paese» o dalle falene che si sollevano sulle travi alla ricerca di una «polvere più fine». Non si fugge dalla gabbia della forma: a cambiare non saranno mai le cose, ma solo i nomi che le rappresentano.

«Sento la malattia propagarsi in me come una teoria», scrive Lerner. La teoria uccide il desiderio che dovrebbe muovere i versi, e i versi vanno ritirati dal mercato «come fossero pneumatici difettosi» che non portano più da nessuna parte. Cosa le è richiesto allora se non di squarciare quel territorio vertiginoso che divide la parola da se stessa, scavalcare i dogmi e liberare il regno del desiderio? Questo regno, però, sembra essere abitato dalla morte e dal vuoto, come il cadavere del padre trascinato via.

È Lerner stesso a porre il problema: «Vero, una grande opera affronta la questione delle proprie origini / e la lascia cadere. Ma questa non è una grande opera. […] / Inappropriatamente formale, / quest’opera più tarda riflette l’incapacità di inghiottire». La sfida del poeta passa attraverso la dissacrazione delle strutture tradizionali: tutte le poesie che compongono la raccolta ambiscono al sonetto e allo stesso tempo lo distorcono, lo storpiano, lo sventrano. Il poeta fagocita la forma perché la poesia può solo essere detta e non mangiata, perché «abbandonare la figura non cambierà il mondo. / Ma comunque nemmeno cambiare il mondo».

Al di sotto del formalismo e dell’autoreferenzialità ciò che rimane e strepita, nei vuoti e nei silenzi che riempiono le pagine come sangue sulla neve, è la violenza più insensata che si incarna nella persona fisica ed erotizzata di Orlando Duran, un ragazzino nominato a più riprese, a volte vittima a volte carnefice, non ha importanza. Eppure il sangue di Orlando Duran è l’espressione di tutto il risentimento di Lernen nei confronti del sistema strutturato, la rabbia delle cose al di là delle parole, la poesia che freme per essere Poesia.

La spinta all’elevazione, questa continua tendenza verso l’alto, porta alla perdita dell’identità, all’alienazione («Perdonatemi, non so chi pensate io sia»), e diventa una lotta entro i confini della figura e contro quei confini, tanto che persino il cielo vuole ascendere rispetto a se stesso.

La poesia non potrà allora che parlare di se’: esattamente come «l’abolizione della prospettiva è un’innovazione della prospettiva», non si scappa dalla forma nemmeno con la sua messa in discussione. L’attacco a un sistema chiuso – ci dice – è un sistema chiuso.

«Queste poesie sono solo goffe / o queste poesie costituiscono una critica della goffaggine?». Persino il cielo può trasgredire alla propria cornice – eccedersi – ma, allo stesso tempo, continuerà a «ubbidire al museo».

I versi di Lerner possiedono un’ironia che dissacra, gioca coi propri limiti, non ha paura a esporli: «Vorrei che tutte le poesie difficili fossero profonde. / Suonate il clacson se anche voi vorreste che tutte le poesie difficili fossero profonde». Il corpo non trova più spazio nei versi se non in forme di estrema violenza, è «distrutto dall’esegesi»: il senso, alla Deleuze, scavalca la sensazione, mentre «il pensabile passa singhiozzando di porta in porta / in cerca di predicati accessibili a piedi». Lo scollamento tra il corpo e la sua rappresentazione si fa sempre più evidente, e a nulla valgono i tentativi di riformare l’arte, la disubbidienza delle avanguardie: i limiti non sono valicabili. Si torna allora – ed è inevitabile, sembra dirci Lerner – a scrivere della scrittura, a fare poesie sulla poesia, un’infinita catena referenziale impossibile da interrompere, «come se l’assenza di uccelli nella poesia fosse assenza di uccelli nel mondo».

E alla fine, quello che resta, è la paura di attivare gli spazi bianchi sulla pagina, quei margini di desiderio, quegli spazi coperti di neve. Perché a farlo c’è il rischio che la neve stessa si ammucchi in paragrafi, che anche lei venga narrata, che coi suoi significati «esagonali, traslucidi» diventi a sua volta qualcosa di –meta: della «meta-neve».

 

Ben Lerner, Le figure di Lichtenberg, Tlon Edizioni, 2017