Dopo l’austriaca Iris Dittler (2014), Teresa Cinque (2015) ed Isabella Mara (2016), è Ivo Bisignano a vincere il bando di residenza d’artista 2017 di ArViMa Civica  Scuola d’Arte Visive Marabelli di Pavia. Il progetto di residenza d’artista, unico in tutta la provincia, è stato introdotto dal direttore artistico della scuola Silvia Ferrari Lilienau, che di seguito racconta l’opera di Bisignano nel suo testo critico. Il cortometraggio che segue è stato diretto da Filippo Ticozzi.

L’opera di Ivo Bisignano nasce dalla traduzione in materia dell’adagiarsi di Pavia sul Ticino.
L’artista ama leggere le città secondo il loro impianto urbanistico, gioca cioè   d’astrazione, entra nella struttura ossea degli spazi. Non è, in lui, la percezione fisica del luogo a prevalere, non sono i suoni né i profumi. È semmai il reticolo delle strade, l’incrociarsi delle une con le altre e il collocarsi intorno al fiume che ne attraversa il tessuto. È il trasporre in geometrie. Così si mette ordine nella percorribilità delle vie e, idealmente, si può prescindere dalla fisicità dell’esperienza. Questa è la lettura preliminare di chi si sia formato come architetto, c’è una ratio purista che impone di raggiungere l’essenza della costruzione, individuandone le linee, i profili.

Ivo Bisignano era nel suo studio a Tel Aviv quando ha considerato la pianta di Pavia. Non ha avuto bisogno di fare un sopralluogo per provare a capirne il carattere. L’ha indagata razionalmente. La fase successiva, quella più squisitamente artistica, consiste invece nella reinvenzione. La resa di un processo analitico in corpo scultoreo tridimensionale. Lì, nell’invenzione, è arrivato il capovolgimento di ruoli e di materia. La solidità della costruzione urbana può allora permettersi di fluidificarsi, mentre l’acqua del fiume diventa metallo.  Ancora. La robustezza della definizione in pianta dell’abitato si fa blocco di vetro, con la trasparenza dell’acqua, ma anche dai margini scabri, di materia un po’ sporca, che nella perdita di levigatezza perde la sua virtù specchiante, e si rende meno disponibile al tatto. Si allontana. Il Ticino diventa invece una tensostruttura in cui i fili di ottone, giallo come l’oro, si congiungono, e il tracciato dei percorsi finisce lì, nel fiume. Se la parte solida si alleggerisce nel vetro, la parte liquida si solidifica invece per dovere di visualizzazione, ma si avverte soffice, e trattiene in sé delle foglie d’oro quasi intrappolate.

I due bracci di fiume si dipartono dal nucleo urbano come nuvole, sul letto del fiume così reinterpretato si culla il blocco di vetro in cui la città liquida prende forma. Nel suo prodursi, il lavoro si sposta dal gesto dello scultore al fare dell’orafo o del tessitore. Con il senso della sospensione che viene da lontano, dai mobiles di Alexander Calder, ma che interagisce qui con l’aria più in termini mimetici che non funzionali. Poi, aggiunta ultima all’intero, l’ombra. Questa è la messa in opera teatrale, la ricerca di drammatizzazione che esasperi l’intrico dei fili restio a sottomettersi, ingigantendosi sulla parete e sulla parete espandendo la costruzione, pur nella sua inesistenza.

Provo a riannodare il filo. Si era partiti dall’individuazione delle geometrie urbane. La città è stata spolpata, deprivata dei sui tessuti molli, scoperta nella sua griglia portante. Il procedere per sottrazione che è dello scultore che voglia snudare la materia, e liberarla da ogni ingombro. A quel punto è avvenuto il ribaltamento, la città e il fiume si sono scambiati le parti. Per poi non essere più né città né fiume, ma una tessitura fatta preziosa per sfidare la forza di gravità, e risalire pareti, invece di defluire. A terra rimane la città, come un uovo irregolare nel nido. Inevitabile sfiorare le valenze simboliche dell’uovo nell’arte, che attraverso i secoli si conferma rimando alla vita, dalle pitture parietali delle tombe etrusche alle sacre conversazioni rinascimentali.

Si cede pure con facilità alla tentazione di riandare all’oreficeria longobarda. Così, si pensa a Ivo Bisignano che ha lasciato Milano per vivere tra Londra e Tel Aviv, e ha temporaneamente deviato verso un Ticinum immaginario, portandosi appresso fili metallici leggeri da legare a un vetro che è come cristallo di rocca. Una discesa preliminare nelle sole coordinate spaziali, per dirigere il viaggio verso un’esperienza artistica che, a risalire verso la forma ultima, aggiunge pezzo a pezzo in senso quasi modulare, ma cresce anche in spessore semantico, tendendo a debordare oltre i suoi stessi margini, o argini. In questo coerente a un suo motto, “more is more”, consapevolmente ribelle all’ascetismo modernista del “less is more” coniato da Mies van der Rohe, e invece tributo al sentire appassionato e all’inquietudine di viaggiatore che gli segnano i giorni.