Inaugurata il 13 maggio, è possibile visitare la Biennale di Venezia fino al 26 novembre. Tra i protagonisti del Padiglione Italia c’è Giorgio Andreotta Calò, con l’opera Senza titolo (La fine del mondo), cui il nostro storico dell’arte Silvia Ferrari Lilienau ha dedicato un cameo.
C’è un momento altissimo ne Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso. Uno dei molti, a dire il vero, ma questo è persino più toccante. Forse perché Calasso sottrae luce introducendo al buio claustrofobico degli inferi, ma all’improviso riaccende la scena con il rosso dei chicchi di melagrana che Ade offre a Persefone, prima che lei torni da Cerere, sua madre. Lo fa approfittando della sua distrazione. Quando di lì a poco Cerere riabbraccerà la figlia, le chiederà se abbia mangiato qualcosa prima di partire. Qui le parole di Calasso: “Allora Persefone ricordò i chicchi della melagrana, quel sapore dolce e asprigno, che ancora, come una lontana memoria, le impregnava la saliva. Quel sapore dell’invisibile l’avrebbe accompagnata per sempre.”
Persefone non potrà che tornare da Ade, sei mesi sulla terra con la madre, sei mesi negli inferi con lo sposo che l’aveva rapita. Nel mito di Persefone si fondono la violenza del ratto, la morte interrotta dal bisogno di vita, la vita che conserva il desiderio di morte.
La furia del rapimento è tutta nelle dita di Ade che affondano nelle carni morbide di Proserpina, nel gruppo scultoreo del Bernini. Il limen oscuro tra vita e morte è invece nell’installazione di Giorgio Andreotta Calò, nel Padiglione Italia alla Biennale di Venezia che volge al termine.
Il salto è ampio e un po’ acrobatico, dal nume tutelare del Barocco a un artista veneziano contemporaneo. È però l’artista veneziano a sollecitare queste immagini, scegliendo di ispirarsi al mundus Cereris, fossa che, nelle vicinanze di Roma, si credeva essere il confine tra gli inferi e il mondo terreno e superno.
Seduti di fronte all’opera Senza titolo (La fine del mondo) – che è una distesa d’acqua in cui si riflettono le capriate lignee del padiglione, amplificata anche da uno specchio sulla parete di fondo – si sta un po’ confusi, come Persefone con i chicchi del frutto del melograno sulla lingua, e dunque già ricordo. Mentre gli occhi cercano un senso, l’impressione è di essere davvero spettatori di un abisso e del suo contrario. Allora è come un pianto. Si è quasi trascinati davanti all’Acheronte, attesi dalle anime che già sono dall’altra parte (le sagome dei visitatori riflessi nello specchio in fondo), e se si muovessero dei passi verso l’acqua sembrerebbe di poter andarsene per sempre.
Vien da chiedersi se la morte sia fatta d’acqua, come questa, non quella mossa dalle onde che lambiscono San Marco e San Giorgio Maggiore, all’esterno; questa ferma e silente, che chiama verso il basso.
Ma tra mito e realtà, citazioni letterarie e spaesamenti mistici, Giorgio Andreotta Calò non fa che filtrare, attraverso la monumentalità un po’ retorica del suo spazio, la contemplazione di noi stessi.