La Secessione di Vienna aprì i battenti nel 1898, e da allora ha sempre inteso promuovere arte aggiornata e internazionale.

Poco importa che i turisti vi si riversino soprattutto per rendere omaggio al Fregio di Beethoven di Gustav Klimt, peraltro irrinunciabile, invece ignorando la forza della sede espositiva di Joseph Maria Olbrich, che – pur nel diffondersi degli ornamenti fitomorfi dell’Art Nouveau – si offriva candida, luminosa e di spazialità adattabile alle esigenze di allestimento di volta in volta variabili.

Tuttavia rimangono tutti e tre, sede, fregio e volontà sperimentale. Per fortuna, perché il Mumok (Museum Moderner Kunst), che con la sua monumentalità un po’ pachidermica rischia di rubare la scena al tempietto con la cupola dorata, non ne ha però il piglio esplorativo, e lì più o meno ci si annoia sempre.

Una delle mostre in corso alla Secessione, dunque, è Chandeliers in the Forest (fino al 28 gennaio 2018) dell’artista russa Olga Chernysheva.

Ora, ricordo di aver sceso le scale che nella palazzina della Secessione portano al piano inferiore, seguendo un brano di Shostakovich e già un po’ diffidando del fatto che la mostra avesse un sottofondo musicale.

In una sala buia c’erano alcune videoinstallazioni in sequenza (Screens), ognuna delle quali presentava un’immagine con commento scritto in Inglese. I soggetti erano quasi banali, ma il testo che li accompagnava molto meno. Il mio occhio è stato catturato dal fotogramma sfuocato di un piccione a terra. Nel brano sottostante c’era un riferimento alla storia – ascoltata alla radio – di un piccione a cui due ragazzini avevano tagliato le ali, e tuttavia il piccione non aveva perso la strada di casa, e aveva percorso settanta miglia camminando. Non importava che fosse un uccello e che un uccello sia fatto per volare: non potendo volare, aveva camminato come camminano gli uomini, perché lo scopo era andare a casa. Ma, mentre scorrevo le parole, il testo in Inglese si è dissolto ed è stato sostituito dalla sua traduzione in caratteri cirillici, incomprensibili ai più, immagino.

Mi sono dunque concentrata sul fotogramma successivo, una rete metallica con breve frase del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, invito a riflettere su quanto sia ammissibile sentirsi infelici in città che non ci sono familiari, e su quanto invece non lo sia esserlo nella città a cui si appartiene. Da cui il dovere di ripensare a come si vive nelle città e nel mondo. Poi anche questa frase è sfumata, e guardandomi intorno vedevo solo parole scomparire, come a farsi rincorrere senza mai dare la soddisfazione di fermarsi e lasciarsi leggere fino in fondo.

L’installazione di Olga Chernysheva fa dunque pensare a un taccuino di appunti, pensieri sparsi che diventano anche immagine, e però temporanei.

La sensazione è di trovarsi di fronte a un intervento artistico che solletica la curiosità di chi guarda, per sottrarsi subito dopo, e farsi cercare. Una specie di nascondino con lo spettatore, che deve far sue le parole prima che spariscano.

Non so dire cosa colpisca di più, se l’evanescenza delle parole, la dimensione del diario quotidiano che sempre apre al sentire recondito di chi lo scrive, o il piccione con le ali tagliate che non rinuncia al suo andare.

Fatto sta che l’opera d’arte totale in tono minore muove e commuove, e la retorica in agguato si attenua nella semplicità della selezione iconografica, nell’effetto dello spegnersi e riaccendersi della scrittura che aumenta il desiderio.

Al di là dei frammenti di suoni e pensieri, a essere omaggiata è la nostalgia di qualcosa che svapora davanti agli occhi, l’idea quasi di un memento.


Olga Chernysheva, From the series Bioaesthetic N1, 2017, Öl auf Leinwand, 40 x 30 cm, Foto: Marcus Schneider