Qualcuno ha distrutto parte di un bassorilievo duecentesco sulla facciata del Duomo di San Lorenzo, a Genova.
Si è subito pensato a un turista desideroso di farsi un selfie, e neppure ci sarebbe da stupirsi. Stando anche solo alla mia esperienza personale, potrei infatti appellarmi a più casi di imbecillità umana legata all’arte.
A partire dalla turista appesa alla scultura dei Tetrarchi a Venezia, proprio per farsi fotografare da qualche complice nella folla, seguita a ruota – appunto per imbecillità – dai custodi di Palazzo Ducale, che in quell’occasione mi dissero, sollecitando io un loro intervento, che i Tetrarchi non erano di loro competenza, dovevano pensarci i responsabili di San Marco, perché i Tetrarchi sono su un fianco della basilica, non del Palazzo Ducale.
Oppure il bambino montato a cavallo di un leone romanico, a Trani, che la madre incoraggiava a colpire sulla testa con una bottiglia di plastica vuota, come se fosse su una giostra di paese e dovesse vincere un premio.
O i molti turisti che a Pavia si siedono accanto ai portali del San Michele, appoggiandosi all’arenaria finissima che si sbriciola sotto il loro peso.
Includo anche le turiste americane che, estati fa, se ne stavano all’ombra del battistero di San Giovanni, a Firenze, con minigonne inguinali e bottiglie di Chianti da cui bevevano a garganella. Non importa che non stessero danneggiando nulla, in un colpo solo brutalizzavano il battistero e il concorso del 1401 per la seconda porta, la cupola del Brunelleschi e il Rinascimento tutto, persino la Primavera di Botticelli che lì non c’entrava nulla.
A confronto, il folle che nel 1972 prese a martellate la Pietà di Michelangelo in San Pietro mentre gridava di essere il Cristo risorto, oggi sembra quasi poetico. Non ci auguriamo certo che episodi come quello si ripetano, ma almeno quell’uomo era inseguito da sue Furie e percorso da esaltazione religiosa. Non era uno sciattone ignorante che avesse confuso Michelangelo con McDonald’s, una scultura medievale con le palle di gomma colorate delle aree gioco Ikea, i Tetrarchi sul fianco di San Marco con un albero su cui arrampicarsi, e da cui magari lanciarsi con tanto di liana e gonnellino maculato.
Intendo dire che il fenomeno, anche quando non arriva alla barbarie gratuita di Genova, in Italia è diffuso da molto.
Non sono tanto gli atti in sé a dover inquietare, ma il contesto che li produce e, in fondo, li metabolizza in tempi brevi, preparando il terreno per nuove occasioni a venire.
Proviamo a chiederci chi potrebbe essere il colpevole. Un giovane, altrimenti non si sarebbe spinto a quell’altezza. Uno che forse un po’ studia o ha studiato. Magari fra le materie in cui è stato promosso e di cui non ha mai capito nulla c’era anche storia dell’arte. Perché sempre più spesso si fa così, si promuove anche chi non si impegna in quelle che ci si ostina a definire, sminuendole, “materie di studio”, come se la storia dell’arte fosse un elenco di opere da studiare a memoria, e non la storia da conoscere e capire attraverso le sue testimonianze visive.
Uno che per immortalare il suo sorriso voleva una location aulica. Perché l’ego espanso, vivendosi come evento continuo, è sempre a caccia di contestualizzazioni di rilievo. Uno insomma che sapeva distinguere un bassorilievo da un intonaco anonimo, ma non tanto da anteporre il valore storico e artistico di quello alla sua vanità.
Spesso, in passato, le opere che perdevano significato venivano reimpiegate. Statue greche in bronzo sono state fuse e trasformate in armi, capitelli di templi romani sono finiti in basiliche paleocristiane, gran parte della cavea del Colosseo è diventata materiale costruttivo per chissà quanti altri edifici successivi, e così via, fino al famoso bronzo del Pantheon che, secondo la studiosa americana Louise Rice, non sarebbe stato destinato da Urbano VIII al Baldacchino di San Pietro del Bernini, ma a decine di cannoni di cui dotare Castel Sant’Angelo.
Ma c’è una profonda differenza tra il pragmatismo antico e la noncuranza attuale. Quel che resta simile è semmai la perdita di significato. Solo che in passato si violava quello che si era svuotato di senso nel variare di tempi di cui non si avvertiva la responsabilità della memoria, mentre ora gesti vandalici preterintenzionali vengono compiuti su opere riconosciute come patrimonio prezioso e collettivo.
Il problema è forse proprio lì. Nel fatto che la preziosità sia nota, ma non intimamente avvertita, anzitutto perché pubblica e non privata, cioè di tutti, e dunque paradossalmente fruibile senza rispetto perché non reclamabile da qualcuno in particolare. Poi perché non compresa nella sua complessità, ma solo còlta nel suo aspetto.
Tuttavia, se tutto diventa superficie, è inevitabile perdere di vista la proporzione tra i livelli semantici, specie in un luogo colmo di testimonianze artistiche come l’Italia, in cui anche l’assuefazione visiva non supportata da adeguata preparazione porta a sottovalutare un danno: in fondo, per una statuetta decollata, quante altre rimangono indenni?
Per non dire della volgarità squisitamente nostrana del sentirsi satolli di bellezza, presunzione che rende immeritevoli un po’ tutti coloro che si ammassano nei luoghi d’arte deputati. Certo più immeritevoli dei piccioni, per i quali, almeno, un duomo e un albero sono davvero la stessa cosa.
Immagine di apertura: gnuckx/flickr.com