Anni fa, durante un soggiorno negli States, visitai il Mass Moca, il Museum of Contemporary Art del Massachusetts; tempo addietro, nel 2008, l’intera nuova ala di un edificio già di per sé imponente era stata predisposta per accogliere una retrospettiva dei wall drawings di Sol LeWitt, mancato l’anno prima.
Le sale, per nulla caratterizzate di per sé, erano contenitori che amplificavano gli interventi di Sol LeWitt, pensati per essere eseguiti anche da altri e adattabili a contesti diversi.
Il percorso andava dal 1969 fino agli ultimi anni della sua vita, con gli anni Ottanta la sua grammatica visiva di base – linee orizzontali, verticali, diagonali da destra verso sinistra e da sinistra verso destra – si era complicata con il colore, e verso la fine era tornata a lasciare spazio al minimalismo delle origini, convertendolo però in ricerca luministica.
Tutto ciò in 105 pitture parietali.
Era capitato che Sol LeWitt, che era rimasto abbagliato dagli affreschi del San Francesco ad Assisi, avesse detto che avrebbe voluto creare qualcosa di cui non vergognarsi davanti a Giotto. Ecco, Giotto sarebbe riemerso da quella retrospettiva provando una fitta di invidia per tanto spazio dedicato alla pittura di un solo artista. Forse l’avrebbe persino avvertito un po’ soverchiante.
Gran risultato per un pioniere del Minimalismo, che aveva inteso ridurre al minimo il significato e il coefficiente decorativo, tanto da procedere per serialità modulare, spesso creando strutture per sola reiterazione di cubi.
Al Mass Moca, Sol LeWitt – che rimarrà in mostra fino al 2033 – è la prova di come il Minimalismo avesse una vocazione architettonica, dal momento che è la pittura a diventare il contesto entro cui muoversi: la pittura è tutta intorno e attraverso la pittura si va.
La piccola mostra-gioiello della Fondazione Carriero è un’altra storia.
A partire dalle ridotte dimensioni della sede espositiva e il numero minimo di opere (che non sono solo wall drawings). D’altra parte, l’ambiente è una dimora quattrocentesca in mattoni rossi e cotto all’esterno, con coperture lignee nell’interno ristrutturato – su due piani – da Gae Aulenti. Il terzo piano espositivo entra nel vicino Palazzo Visconti di Modrone, che risale al Settecento. Prendiamo dunque le mosse da questa somma di elementi, procedendo in ordine cronologico:’400+’700+’900. Qui Sol LeWitt non colonizza uno spazio, vi si inserisce in serrato ritmo dialogico: non a caso, insieme con Francesco Stocchi il curatore della mostra è l’architetto olandese Rem Koolhaas. Dunque l’asciuttezza formale di Sol LeWitt si imbeve delle preesistenze storiche e artistiche locali, e acquisisce una preziosità che di per sé non avrebbe.
Ridurre l’ampiezza degli interventi, farli respirare piano entro scrigni minuti significa anche farli virare verso un carattere più europeo.
Innegabile che l’esperimento sia delizioso, sospeso tra il sacro di un concettuale quasi ascetico – le sculture tra anni Sessanta e Settanta inserite in piccole sale del primo piano, come reliquie esposte in cappelle che si susseguono – e le levità settecentesche di cui è omaggio il piano in Palazzo Visconti.
Tra gli specchi incorniciati che restituiscono un’idea di Rococò, trionfa infatti una parete a specchio percorsa da linee a pennarello, adattamento di un vetro così trattato nell’Edams Museum, in Olanda, nel 2003.
Lo specchio, che diventa una grata, danza un minuetto con gli specchi delle pareti, e intanto ingabbia gli spettatori, che partecipano dei riflessi illusori: dal Neorococò si rotola à rebours verso teatralità barocche.
Si sente insomma un retrogusto di complicazione tutta europea, e però seduziosa e gustosissima.
Certo, quando riguadagnando l’uscita si sosta davanti alla serie di fotografie in bianco e nero dell’Autobiography (1980), e si ripercorre la serie di oggetti domestici fermati nel tempo dall’artista, dalle padelle appese alle pareti alle pile di nastri di musica classica, si è colti dal sospetto che a quel Sol LeWitt, quasi ossessionato dalla ripetizione modulare, assomigli più il fare grande e neutro del Mass Moca. Viene il dubbio che, pur nel rigore operativo della traslazione, Sol LeWitt sia ora stato contaminato con il sapore intimistico e prezioso della pittura olandese del Seicento, anche se qui non c’è nessuna ragazza con l’orecchino di perla; che Casa Parravicini si sia temporaneamente trasformata in una casa in mattoni rossi della Delft di Vermeer.
Ma, in fondo, a chi non piacerebbe assomigliare un po’ a Vermeer?
Sol LeWitt
Between the lines
dal 17 novembre 2017 al 23 giugno 2018
Fondazione Carriero
Milano
Immagine d’apertura: Whitney Museum of American Art, New York