A volte arte contemporanea e arte antica si avvertono incompatibili.
Come se fra le due ci fosse un solco che per i nostalgici diventa ferita aperta, non suturabile.
Gli artisti viventi temono il confronto, si preoccupano di uscirne annientati. Il rischio è, per lo più, che uno spazio antico – sia esso un castello, una chiesa non più officiata o altro ancora –, carico di storia e di probabile bellezza, sia impiegato come mero contenitore di arte invece recente. Lo spazio antico trasformato in scatolone, il contemporaneo in decoro. Gli esperimenti, quando incauti, producono contrasti indigesti nella spirito e nella forma.
C’è tuttavia un luogo un po’ fuori dalle rotte più note, in cui l’architettura del Settecento e interventi minimalisti anziché respingersi danzano minuetti, e noi con loro.
È Villa Panza di Biumo, a Varese, il cui corpo settecentesco ha visto aggiunte neoclassiche e degli anni Trenta del Novecento, senza che l’incanto della leggerezza originaria si sia mai interrotto.
Seguo un percorso al contrario – così come mi è capitato in una giornata pur piovosa di primavera alle porte – dall’esterno all’interno, partendo da una scultura di ferro e acqua di Meg Webster, nel cortile d’onore che dà sul giardino.
Cone of Water, del 2015, è un cono rovesciato colmo d’acqua, che si fa specchio per le nuvole e per la balaustra che come un pizzo conclude la sommità del portico antistante. A guardare quel portico viene in mente Il Banchetto di Antonio e Cleopatra di Tiepolo in Palazzo Labia, a Venezia, il banchetto qui sostituito dalla scultura, ma simile lo sfondamento prospettico sul parco. Ci si sente cioè dentro ai giochi delle architetture del Settecento che si allungano a rincorrere nature infatti desiderose di essere rincorse dallo sguardo.
Osservare Cone of Water con la pioggia è poi un’esperienza quasi mistica, le gocce d’acqua diventando filamenti di ricamo virtuale tra cielo e terra.
Specchio, luce e cielo sembrerebbero costituire il filo conduttore della collezione, con un crescendo di impalpabilità spirituale.
Ora, vero è che Ganzfeld di James Turrel (2013), nelle scuderie, introduce a esperienze percettive che si nutrono di accensioni cromatiche, ma il volo in una dimensione non solo sensoriale si spicca in almeno altri due momenti di non-colore. Sono – ritengo – ineludibili associazioni di idee a condurre le danze.
In una sala al piano superiore, a un certo punto compaiono le Ali Grigio Neutro di Ettore Spalletti, del 1988, due tele di notevoli dimensioni che si scostano dalla parete come ali un poco sollevate. Nel mondo dell’arte, le ali sono ali d’angelo, specie nell’Annunciazione. Il repertorio è in tal senso ricchissimo, dalle ali vibranti dell’arcangelo Gabriele nell’Annunciazione di Simone Martini, alle ali invisibili, eppure percepibili nelle pagine come mosse dal vento nell’Annunciata di Antonello da Messina. E così via, altre mille volte.
Il fatto è che, dopo quelle ali di Spalletti, non si può che voler vedere angeli e annunciazioni anche nello spazio bianco creato da James Turrel nel 1974, con due diagonali di luce (Virga), che cadono dall’alto e poco più in là invece ascendono in Lunette, il cielo incorniciato entro i margini di una finestra centinata. Lo spettacolo è il cielo che sembra cambiare colore se le luci intorno cambiano, ma che resta del suo colore naturale quando il bianco delle pareti è simile a quello di una cella monastica.
Il bianco e il silenzio si chiamano a vicenda, e allora sembra possibile sperimentare particule di trascendente, confermate dal labirinto bianco che è l’installazione site-specific di Robert Irwin per la limonaia della villa, con i tagli di luce che entrano dalle aperture verticali in ritmo alternato rispetto alla sequenza di veli. Bianco è il giglio delle annunciazioni, e nel reiterarsi non può che assumere valenza cultuale, quasi con il ritmo pausato di quando si passa da una campata all’altra, in una chiesa.
Alla fine, se ci si interroga sull’arte che si è vista a Villa Panza di Biumo, si può essere tentati dal definirla un’arte trasparente, un’arte che quasi non c’è. O meglio, c’è eccome, ma così in grado di intelligere lo spazio, che con quello si fonde, e per poco non si perde coscienza delle radici diverse, come se quell’arte fosse cresciuta lì, insieme con le siepi e gli alberi del giardino.
Antico e contemporaneo sanno allora parlarsi e, anzi, magnificarsi reciprocamente, ma l’arte contemporanea deve avere respiro e passo pari al grembo ospite, altrimenti l’urto è inevitabile, e a risultare estraneo l’ultimo arrivato.
Il fatto è che chi arriva dopo deve porsi in ascolto del precedente. L’ordine temporale va rispettato, e mai capovolto, e questo dovrebbe essere un memento per curatori frettolosi o in malafede, che ritengano l’antico in grado di compensare le carenze eventuali del nuovo: pia illusione.
Immagini FAI Villa Panza: Pagina Facebook ufficiale